Auschwitz

Il 28 gennaio 2005, sul “Corriere della Sera” veniva pubblicato un articolo dal titolo “Un fischio di treno ed il mondo rivive Auschwitz”.

“Auschwitz – Bisognerebbe tornare sempre a vedere la ferrovia, il filo spinato, la rampa, i forni e le baracche. E bisognerebbe portarci i figli. E raccomandargli di portarci i loro figli. E non smettere mai di spiegare l’inspiegabile, di raccontare l’orrore infinito di questo abisso. E’ un pensiero costante, ossessivo, mentre un crepuscolo gonfio di neve cala sulla landa gelata e mortifera di Birkenau e una signora israeliana rompe il protocollo polacco, si alza dalla fila dei sopravvissuti, va al microfono dei potenti. Si è tolta il cappotto, ha gettato via la coperta che le avevano appoggiato sulle gambe per proteggerla dal freddo. Indossa un maglioncino bianco su pantaloni neri.

Nessuno prova a fermarla. Parla in buon polacco. Frasi sconnesse e gridate. Emozioni devastanti: «Perché hanno bruciato un popolo intero? Perché ci hanno fatto questo? Perché a noi ebrei? Ma oggi sono israeliana, ho un Paese, una bandiera, un presidente, nessuno ce li porterà mai via. Avevo sedici anni. Stavo qui, nuda, senza vestiti. Come ora. Perché? Perché?»…. (di Paolo Valentino – Corriere della Sera)

Erano passati sessant’anni dalla liberazione del campo.

Il 1 novembre 2007, dopo aver detto “si” ad un invito a guardare il reale nella sua interezza, mi sono ritrovato anche io a visitare Auschwitz. Una parola strana, adatta a far pensare a qualcosa di molto lontano nel tempo e nello spazio, irreale e allo stesso tempo fantastico nell’accezione più negativa del termine. Dopo aver letto articoli e testimonianze riguardanti la Shoah, avevo ormai costruito una immagine mentale di quel che poteva essere il campo di sterminio di Auschwitz. Film come “La vita e bella” e la “Schindler’s list” avevano contribuito a questa idea, che era diversa da quella che mi sono ritrovato davanti all’ingresso del vero campo.

Oświęcim cui nome tedesco è Auschwitz, è la piccola cittadina polacca che ospita il famigerato campo di sterminio. Apparentemente la vita nella piccola cittadina è tornata normale, ci sono persone che vivono tranquillamente, case, strade, come se nulla fosse mai accaduto. Anche gli stessi edifici del campo sembrano emergere da un passato lontano, ormai dimenticato. Ho dovuto faticare molto prima di poter realizzare l’essenza del luogo. Gli edifici di Auschwitz non sembrano far trapelare il loro passato, l’atmosfera non è lugubre.

L’emozione autentica, non è arrivata da quello che mi aspettavo o da quello che avevo costruito nella mia mente preparandomi alla visita, bensì dalla sferzata di orrore dovuto all’incontro con una donna. Una donna con un cappotto celeste, che improvvisamente è entrata in uno dei blocchi del campo. Ha attraversato un lungo corridoio in cui erano esposte le foto di centinaia di deportati che sembravano fissarmi con i loro occhi vuoti, cercando una risposta alla domanda che tutti si pongono: “Perché è accaduto tutto questo?”.

In modo molto impacciato, portava con sé una rosa bianca, un mazzo di fiori, una grande borsa nera e un sacchetto di plastica. Il corridoio era affollato di visitatori e scolaresche, ma la presenza di questa persona dominava quella circostanza.

All’improvviso la signora ha appoggiato il mazzo di fiori vicino il battiscopa della parete opposta. Quasi in punta di piedi per non disturbare e osservando un silenzio comandato (come se stesse rivivendo il terrore del tempo passato nel campo), si è avvicinata alla foto di un uomo ed ha posato su di questa una rosa. Le lacrime cadevano accarezzando una pelle liscia perché segnata dal tempo; quel tempo passato per la pelle, ma fermo per il cuore. Compiuto il gesto si è appoggiata alla parete opposta e con gli occhi verso il basso ha cominciato a pregare.

Raccontare questo luogo senza essere banali o ripetere frasi fatte è un’impresa dura da compiere, sia perché le sovrastrutture create per non dimenticarlo a tutti i costi rischiano di trasformarlo in qualcosa di noto a priori (quindi banale, saputo), sia perché Auschwitz rende qualsiasi parola inadatta a esprimere concetti, emozioni e fatti; al cospetto del “Campo di Concentramento” il senso di confusione e smarrimento è grande e le parole devono necessariamente lasciare spazio al silenzio interiore.

L’impatto visivo è travolgente, e numerose sono le immagini che colpiscono: la vastità del luogo, quel grande cancello che inneggia alla libertà, i blocchi, i forni crematori, i mucchi di occhiali, valigie, scarpe e capelli; di fronte a tutto questo è assolutamente vietato rimanere indifferenti.

Nessuno può e deve rimanere spettatore indifferente del male, perché Auschwitz è stato ed è una cartina tornasole per l’uomo: l’umanità e la realtà vengono messe da parte per favorire una marcia inquietante verso l’ideologia; cosicché si riesce a perdere ogni pluralità in nome dell’unità dando spazio alla teoria della razza che diventa prassi nei lager. Qui l’uomo enfatizza tutto il suo male, pensando prima e attuando poi un simile progetto. Quella che nei lager si compiva era una forma di annichilimento dell’uomo da parte dei suoi stessi simili.

I soggetti di quest’annichilimento non furono solo le vittime dirette, coloro che passarono da Auschwitz e qui morirono. È troppo comodo pensarla in questo modo.

Vittime e carnefici, coloro che sapevano e perfino noi in quanto uomini, abbiamo subito lo stesso destino; tutti siamo stati annichiliti.

Auschwitz rappresenta la massima espressione dell’efficienza esasperata e cinica dell’essere umano. Qui l’uomo smarrisce se stesso e si ritrova: si annienta totalmente e si ritrova in tutta la sua potenza quasi divina. Una potenza capace di concepire e realizzare un luogo simile. Annientare e creare.

Dopo aver vissuto questa esperienza ad Auschwitz, penso che il punto generativo per un uomo è sapersi ritrovare fuori di Auschwitz. Saper ritrovare la propria umanità, riconoscere i propri limiti e saper vivere l’insieme delle circostanze che la realtà offre per ritrovare quella dignità che facilmente può essere cancellata come avvenne ad Auschwitz.